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Pubblicato da Luigia Forgione

Come una canna al vento

Caporetto, 23 Ottobre 1917, ore 23,00

Cara mamma,

dopo anni e anni in cui non mi sono fatto vivo, eccomi a voi.

Sono cresciuto tanto, al punto che ho una moglie e tre figli. Anzi, correggo, due mogli: la prima, Carmela, buonanima, è morta di parto nel dare alla luce una bambina, alla quale ha fatto da mamma la seconda, Maria, da cui ho avuto altri due piccoli. La vedovanza non è durata molto, come è facile intuire, per due buoni motivi: primo, c’era la bambina da accudire; secondo, la vita mi concedeva la possibilità di sposare Maria, quella stessa che da ragazzo non avevo osato avvicinare per vergogna e inadeguatezza e che mi limitavo a guardare da lontano, incapace di decifrare e dare un nome al formicolio alle mani e al sudore che mi rigava la schiena ogni domenica, quando la vedevo all’uscita della Messa.

Tutti mi dicono che sono un bel giovine, e io penso di somigliare a voi.

Sono anche di buon cuore, ma un po’ permaloso. Lo siete anche voi? Mi piace credere che sia così. In merito, non ho occasione di riscontri. A ogni buon conto , state tranquilla, mamma cara, per voi non ho rancore. Dietro al vostro agire ci saranno stati buoni motivi a me tuttora e per sempre, credo, oscuri.

Io sono bracciante, vuol dire che vado a giornata, facendo un po’ di tutto. Di soldi a casa ne porto pochi, e, chiaramente, non bastano mai. La mia Maria non lavora fuori, ma, in casa, v’assicuro, ha le mani d’oro. Infatti, oltre a crescere i figli sa fare dei rammendi miracolosi. Accorcia, allunga calzoni e camicette e soprattutto riesce a mettere insieme il pranzo con la cena.

Mia moglie è una bella donna: capelli castani lunghi e attorcigliati in una folta treccia, occhi verdi, una pelle chiara come il cielo al canto del gallo e un cervello fino fino. Pensate che sa scrivere delle lettere bellissime per le vicine analfabete, che si disobbligano con verdura, legumi e cartocci di farina. Dimenticavo, Maria le lettere le sa anche leggere e molte volte le comari si commuovono al suono delle parole che le rotolano dalla labbra. Per questo ed altro, a volte, mi chiedo come abbia fatto a sposare un testone come me.

Però, a volerla dire tutta, Maria non va a lavorare perché sono io a volere così, nonostante l’indigenza. Sono geloso di lei in un modo esagerato, anche se, povera donna, non mi ha dato mai motivo di dubitare della sua onestà. Vi confesso l’inspiegabile bisogno di sapere che a casa c’è lei che alleva i miei figli e che sbriga le faccende per me solo. Ho necessità di sapere che lei mi aspetta ogni sera col catino, pronta a lavar via polvere, stanchezza e neri pensieri; ho urgenza di tuffarmi nei suoi occhi di prato e di carezzarle, di sfuggita, la pelle bianca, mai toccata dal cocente sole.

Figuratevi che a sera, seduto accanto al fuoco, mi riempio gli occhi dei suoi gesti agili e lesti; ad esempio: la guardo scodellare la minestra alle tre vogliose bocche, che svuotano con gli occhi il tegamino. Allora, adducendo di avere poca fame, rimbocco il suo piatto e svuoto il mio. E poco importa se lo stomaco rimbomba, io lo riempio coi gesti amorosi di Maria.

La prima parte della vita, mamma, l’ho vissuta in un posto dove c’erano delle suore. In quel posto noi bambini condividevamo praticamente tutto: pane raffermo, minestre sciape, mocci persistenti, rare carezze e ceffoni replicati.

Da adolescente,ho vissuto presso una famiglia di agiati proprietari agricoli. Premetto che in questa fase c’è un Prima e un Dopo. Prima, ero addetto a piccoli lavori nell’orto, nel granaio e nella cantina. Stavo bene: una quasi famiglia, una minestra calda e un letto morbido e accogliente. Avevo anche una compagnia: il figlio del padrone, svogliato e dispettoso, ma perfettamente partecipe nelle uscite della Domenica. Tutto filava liscio, fino a quel Maledetto Giorno. Dopo, cambiò tutto: addetto agli animali, pasti separati e per tetto il casotto degli attrezzi accosto al fienile. In quel “Dopo” si concentrarono amarezza e solitudine. Imparai ad amare gli animali, a decifrare i loro versi, a riscaldarmi il cuore al tepore della loro pelle. Agnelli, caprette e maialini, depositari dei miei segreti e compagni nelle lunghe notti di tormenta. Imparai presto anche la sofferenza del distacco, allorché i miei amici venivano venduti o macellati. Mi ricordo, in particolare, di Zigrina: una capretta che, riconoscendo i miei passi, mi veniva incontro sullo stradone della fattoria e non si stancava mai di leccarmi il viso. Anche lei andata, sotto i miei occhi asciutti, giacché le lacrime erano occupate a dilavare il cuore.

Appena maggiorenne, me ne sono andato via, alla ricerca di Qualcosa che fosse per sempre e solo mia.

Il resto ve l’ho già detto. Oltretutto, la mia vita, come quella di tanti altri poveri diavoli, è fatta di poco, al punto che, avvoltolandola, entrerebbe nella tasca dei calzoni.

Nonostante tutto, potrei dirmi felice, se non fosse che mi trovo al fronte e precisamente a Caporetto. Al momento c’è calma. E in questo stretto cunicolo mi sono un attimo accosciato. Di fronte a me c’è una parete di terra, ornata da filo spinato. Nella mia mano una medaglietta sacra che è mia solo perché l’ho sempre posseduta, senza mai chiedermi da dove venga o chi me l’abbia regalata. Sento che è il mio portafortuna. Ho approfittato per scrivere anche a Maria e ai miei bambini.

Ora vi saluto, riprende qualche sparo. Non temete per me: me la caverò.

Con struggente affetto e nostalgia

vostro figlio Domenico Esposito

P.S. Mamma cara, vi devo una veloce spiegazione su quel Brutto Giorno.

Il figlio del padrone mi disse che voi mi avevate abbandonato, e che io ero nient’altro che un trovatello figlio di puttana. Gli saltai addosso come una furia e lo massacrai di botte. Non mi sono mai pentito d’averlo fatto, che Dio mi perdoni! Ah! Sono sicuro che la medaglietta me l’abbiate lasciata voi, grazie.

Alle ore 2:00 del 24 Ottobre iniziò il disastroso e sanguinoso scontro.

Domenico Esposito cadde in battaglia. Nelle sue tasche si rinvennero due lettere, un lapis ed una medaglietta sacra.

Luigia Forgione

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